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02 La Brigara Sinigaglia
Il 25 luglio 1943 alla caduta del fascismo Mussolini viene imprigionato e gli antifascisti sono liberati. Dopo un periodo di confusione l’8 settembre 1943 l’Italia, fino ad allora alleata della Germania nazista, firma un armistizio separato con gli Alleati. Già dal 9 settembre l’esercito tedesco inizia ad invadere l’ex alleato; le truppe dell’esercito italiano prive di ordini, salvo combattimenti sporadici, non oppongono resistenza e vengono catturate o fuggono, tutto questo mentre il Re, la corte e lo Stato maggiore dell’esercito scappano da Roma verso Brindisi: l’intera nazione è allo sbando. Su ordine di Hitler, Mussolini viene liberato e messo a capo della Repubblica Sociale Italiana, che proseguirà nella guerra accanto alla Germania, nonostante la diffusa contrarietà della società italiana.
Nascono nella zona le prime bande composte per lo più da antifascisti liberati dalle carceri e militari sbandati: nel Figlinese la Formazione Fantasma, intorno a Cavriglia la Castellani e la Chiatti, il Distaccamento Gino, che nato a Rufina viene decimato sul Monte Secchieta, la Stella Rossa che con un gesto eclatante occupa Vicchio.
Composte da pochi uomini e male armate, queste bande non possono affrontare in campo aperto un esercito regolare, ma i loro numerosi assalti a sorpresa sono un oggettivo elemento di disturbo per i tedeschi, continuamente costretti a richiamare truppe dal fronte per controllare il territorio. Fin dal novembre 1943 erano stati emanati dei bandi per chiamare i giovani alla leva. Inizialmente questa operazione ha parzialmente successo, ma con il mutare delle sorti belliche dovuto all’avanzamento degli Alleati nella penisola, i risultati dell’arruolamento iniziano ad essere insufficienti e i bandi del ministro Graziani prevedono la pena di morte per i renitenti che non si presentino ai propri reparti; in particolare il bando del 26 maggio 1944 ottiene il risultato opposto a quanto sperato: moltissimi giovani scelgono di darsi alla macchia e durante il mese di maggio gli effettivi delle bande partigiane raddoppiano in tutta la Toscana.
Con l’avvicinarsi degli Alleati a Roma, che verrà liberata senza un contributo della Resistenza il 4 giugno, il Comitato Toscano di Liberazione Italiana e il Partito Comunista scelgono per il capoluogo toscano una strategia diversa dal forte valore politico e simbolico: i partigiani dovranno entrare a Firenze prima dell’arrivo degli Alleati, dimostrando che gli italiani, ormai ribellatisi al fascismo, sono in grado di liberarsi da soli. Per farlo saranno necessarie grandi brigate partigiane insediate intorno a Firenze che dovranno far ingresso in città da diverse direttrici: la Caiani sul Monte Giovi, la Fanciullacci sul Monte Morello, la Lanciotto sul Pratomagno, la Sinigaglia sui Monti Scalari.
Acquartierata inizialmente sul Monte Castellino, la brigata viene intitolata ad Alessandro Sinigaglia “Vittorio”, organizzatore dei GAP fiorentini ucciso il 13 febbraio dalla Banda Carità, ed è composta oltreché dalle bande della zona, dai giovani che affluiscono quasi quotidianamente dal Valdarno e dall’area sud di Firenze. All’atto di costituzione ufficiale della brigata il 1 giugno sono forse già oltre trecento.
Inevitabilmente una brigata neocostituita con molte nuove reclute si trova a dover affrontare molti problemi organizzativi e anche avere un organigramma è difficoltoso. Non raramente le azioni finiscono per essere frutto delle occasioni capitate alle singole squadre, senza una pianificazione, secondo una modalità da loro definita a “Caccia libera”. Parallelamente è necessario lavorare molto sulla formazione politica dei ragazzi attraverso la cosiddetta “Ora Politica”. Non da meno sono i problemi logistici, principalmente quello degli armamenti, tantoché verosimilmente agli inizi un terzo o poco più di loro è armato e solo i lanci con cui gli Alleati provvederanno a rifornirli di materiale potranno cambiare la situazione. Determinante infine sarà l’aiuto della popolazione civile e soprattutto dei contadini della zona grazie a cui arriveranno continuamente viveri, anche se l’alimentazione sarà spesso inadeguata anche con giorni di digiuno.
Nonostante tutte le difficoltà la Sinigaglia diventa una spina nel fianco dell’esercito tedesco che nelle settimane di giugno sembra non essere più sicuro nelle retrovie a causa di una serie incalzante di azioni partigiane. Il 14 giugno viene addirittura attaccato e disciolto un intero battaglione, il 113° del genio repubblichino e buona parte dei giovani del battaglione si uniscono alla Sinigaglia. Il Monte Castellino non è ormai più sufficiente a contenerli tutti e vengono creati due distaccamenti a Poggio La Sughera e Poggio Tondo su cui vengono dirottate i nuovi arrivi. Nei giorni a ridosso della strage di Pian d’Albero la Sinigaglia è cresciuta esponenzialmente e conta adesso sei/settecento membri, per lo più reclute.
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03 Partigiani della Sinigaglia "BISTECCHINO"
Originario di Poggio alla Croce, Oliviero Buccianti (22/12/1925-20/06/1944) è uno dei tanti giovani che sceglie di unirsi alle formazioni partigiane nella tarda primavera del 1944. All’inizio Oliviero sceglie “Moschito” come nome di battaglia, ma ben presto diventa per tutti “Bistecchino”, anche per il padre sensale di bestiame, che cerca di far arrivare della carne al figlio e ai compagni. Benvoluto da tutti per il suo carattere solare, è fra quanti nella notte di piogge fra il 19 e il 20 giugno trovano riparo a Pian d’Albero. Lì muore tragicamente nell’attacco tedesco del mattino successivo, durante il quale sale con un compagno sul tetto del casolare da dove cerca di sparare sui soldati in arrivo, ma viene colpito quasi immediatamente da una raffica nemica.
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04 I ragazzi di Bagno a Ripoli, Gavinana e Ponte a Ema
L’afflusso di giovani dall’area a Sud di Firenze è massiccio in seguito ai bandi Graziani della R.S.I. che prevedevano la pena di morte per i renitenti alla leva. Nelle settimane del giugno 1944 in tanti arrivano sui Monti Scalari quasi ogni giorno, fino alla sera del 19 giugno, quando un gruppo di loro si riparerà dalle piogge nel casolare di Pian d’Albero. In quella strage resteranno uccisi in molti: Ezio Baccetti, Pietro Boncinelli, Luigi Di Vita, Evandro Fabbroni, Vinicio Grint, Siro Mariani, Roberto Mascagni, Aldo Pierattini, Romualdo Pizzi, Siro e Spartaco Pratesi, Giuseppe Romanelli, Ennio Strada, Bruno Volpi.
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05 Alle guida della Brigata
Un piccolo gruppo di antifascisti (Luigi Garavaglia “Gino” e Danilo Dolfi “Giobbe”), ed ex-militari dello sbandato Regio Esercito Italiano (Angiolo Gracci “Gracco” e Marino Sgherri “Il Moro”), riceverà il compito di guidare la neocostituita Brigata Sinigaglia. Ancora giovani hanno pochi anni e solo poca esperienza militare in più delle tantissime reclute appena più che adolescenti. A loro spetterà il compito di fornire ai compagni consapevolezza politica e, fra inevitabili difficoltà ed errori iniziali, organizzarli e guidarli verso la liberazione di Firenze prima dell’arrivo alleato.
La spianata che si apre adesso veniva denominata allora Pian degli Olmi perché costeggiata da un filare di alberi ora scomparsi fino al casolare di Pian d’Albero di fronte a noi. Tutta la geografia dell’area era allora diversa da oggi: di fronte al casolare venivano coltivati campi e il poggio visibile a sinistra, a nord est, non era ricoperto dagli abeti Douglas piantati in seguito, ma quasi brullo.
Raggiungeremo Pian d’Albero davanti a noi per poi tornare indietro e riprendere il Sentiero della memoria che prosegue sulla nostra destra.
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07 La strage di Pian d'Albero, 20 giugno 1944
Pian d’Albero, costruito nel 1885, come tutta l’area era di proprietà dei Rosselli-Del Turco. Nel 1938 vi si trasferiscono come mezzadri i Cavicchi, originari di Bruscoli, frazione di Firenzuola sull’appennino tosco-emiliano, seguendo quanto hanno fatto poco prima i Venturi, che sempre da Bruscoli erano andati ad occupare i due casolari vicini di Casa al Monte e Monte Moggio. Il nucleo familiare dei Cavicchi è costituito dal nonno Giuseppe, dalla moglie Teresa, dal figlio Norberto con la moglie Teresa Malagigi, dai nipoti maggiori Orlando (detto Lando), Paolo, Renzo, e dai nipoti più piccoli, Aronne e Giuseppina.
Quella dei Cavicchi è una delle molte famiglie collaboratrici della Brigata Sinigaglia, che ha dislocato due distaccamenti, con circa duecento giovani per lo più reclute, a Poggio Tondo e Poggio La Sughera, le due colline che scorgiamo a poche centinaia di metri a Nord di Pian d’Albero.
La crescita esponenziale della brigata è avvenuta troppo rapidamente nel giugno 1944 perché fosse possibile approntare piani difensivi e dare una sufficiente organizzazione militare alle squadre di partigiani, che non raramente si trovano a colpire sfruttando occasioni capitate sul momento più che pianificate dai vertici. È così che il pomeriggio del 19 giugno una pattuglia composta da quattro/cinque partigiani, quando nella zona di San Martino vede in lontananza un’auto Topolino occupata da due militari tedeschi, decide di tendere un’imboscata. Uno dei due militari viene catturato e di lì a poco ucciso, l’altro riesce a fuggire, correndo verso il comando militare al vicino Palagio.
La pattuglia partigiana decide di trasportare l’auto verso i propri acquartieramenti, posteggiandola nel cortile di Pian d’Albero. L’attacco è avvenuto secondo modalità consuete, ma la vicinanza del comando tedesco, verso cui è riuscito a fuggire per dare l’allerta il soldato tedesco, comporta in questo caso seri rischi. Inoltre le giornate di pioggia precedenti fanno sì che l’auto lasci delle tracce sul terreno rendendo facile individuare la direzione percorsa. È così che rapidamente un gruppo di tedeschi arriva sul luogo dello scontro ed entra nelle case dei contadini della zona, intimandogli di parlare. Ma ormai si sta facendo sera e temono di avventurarsi nei boschi al buio. Per questo tornano indietro ordinando ai contadini di non muoversi dalle loro abitazioni perché al mattino successivo riprenderanno la loro ricerca.
Nel frattempo la sera del 19 si unisce alla Sinigaglia un consistente gruppo di nuove reclute provenienti dall’area di Ponte a Ema-Gavinana. Normalmente verrebbero accompagnati verso i distaccamenti di Poggio Tondo-Poggio La Sughera, ma con la pioggia insistente i Cavicchi offrono loro riparo all’interno del fienile del casolare. L’acqua penetra facilmente nelle capanne di fortuna dei distaccamenti e così anche alcuni di quei partigiani vengono accolti per la nottata a Pian d’Albero, dove è ipotizzabile dormano una settantina di ragazzi, di cui però solo una decina armati. Per tutti loro quello è un luogo sicuro; forse gli autori dell’attacco alla Topolino sono i primi a non rendersi conto del pericolo e informarne adeguatamente i comandi e forse i vertici della brigata non si rendono conto dei rischi. Di fatto per quella notte non viene emanato nessuno stato di allerta.
Già prima dell’alba del 20 i tedeschi tornano sul luogo dell’imboscata, ma questa volta sono in gran forze, almeno trentaquattro uomini del battaglione della 4. Fallschirm-Jäger Division di stanza a Norcenni, con probabilmente altri di supporto. Riprendono a terrorizzare e interrogare i contadini, ne incendiano le abitazioni, e la violenza subisce un’escalation drammatica: viene inscenato un plotone di esecuzione per tre giovani catturati, di cui uno Dario Caldelli, che forse colto dal terrore aveva provato a fuggire, viene ucciso. A quel punto gli altri atterriti capiscono di dover collaborare con i tedeschi o presto verranno uccisi e due dei contadini si avviano verso Pian d’Albero con i fucili dei tedeschi puntati alle spalle. Sperano di essere avvistati dalle sentinelle che però, senza ordini di rafforzare la vigilanza, sembra abbiano passato lì solo la nottata, abbandonando la postazione all’alba.
Quando i tedeschi intorno alle sette del mattino sbucano di fronte a Pian d’Albero, i partigiani pochissimo armati e colti di sorpresa, non possono reagire all’attacco. Bistecchino sale sul tetto, ma viene immediatamente colpito. Alcuni provano a sparare dall’interno, ma le munizioni si esauriscono immediatamente. Tanti giovani sono ancora nel fienile e cadono uccisi uno dopo l’altro mentre scendono le scale per uscire. Non sanno che gettandosi da una botola potrebbero fuggire sul retro. Di quanti erano già all’esterno molti riescono a fuggire, altri cadono uccisi sul posto; i restanti vengono presi prigionieri, insieme all’adolescente Aronne e al padre Norberto, per essere trasportati al Palagio. Durante il tragitto dei tentativi di contrattac
Con il toponimo l’Apparita veniva indicata l’area in cui Poggio Tondo e Poggio La Sughera si uniscono, permettendo una buona visuale sull’area circostante. Anche per questo la zona era frequentemente area di stazionamento delle sentinelle partigiane assieme al poggio immediatamente sovrastante a sud Pian d’Albero sull’altro versante. Luogo di appostamento era spesso il “Masso all’Apparita” di cui la vegetazione che ha invaso tutta l’area non permette di ritrovare la collocazione.
Presumibilmente ai primi di giugno l’iniziale area della Sinigaglia sul Monte Castellino non era più sufficiente, per questo vengono dislocati su Poggio La Sughera (alla nostra sinistra) e Poggio Tondo (alla nostra destra) due nuovi distaccamenti, rispettivamente della 4a Compagnia Castellani e della 1a Compagnia “Mario Pagni” che arriveranno a contare un complessivo di circa duecento uomini. A sovraintendere l’inquadramento delle nuove reclute sono i partigiani di lungo corso, a cui vengono affidati gli incarichi direttivi. Teoricamente nella brigata è previsto un organigramma militare con comandante (Luigi Garavaglia “Gino”) un commissario politico (Danilo Dolfi “Giobbe”) e un capo di stato maggiore (Angiolo Gracci “Gracco”) e così via per ognuna delle cinque compagnie di cui è composta la brigata e poi per le singole squadre. Inevitabilmente però l’organizzazione in queste prime fasi è in realtà ancora approssimativa. Altrettanto provvisori sono anche gli alloggiamenti di questi ragazzi: baracche di fortuna costruite spesso piegando le cime di due alberi, con delle piote come tetto e uno strato di felci a terra come letto.
Il distaccamento della Pagni comprende anche da una squadra internazionale con circa quindici/venti partigiani sovietici. Alcuni di questi si sono uniti solo recentemente, altri invece erano nelle bande partigiane già dalla primavera. Parlano pochissimo l’italiano, ma cercano di apprendere la lingua e sono i più decisi a combattere i tedeschi che hanno invaso anche il loro paese. Coraggiosi e scrupolosissimi anche nei gesti quotidiani, durante le guardie, prima di fumare una sigaretta si coprono con una coperta perché non venga avvistato il fumo. Tuttavia tanta determinazione è, sì un punto di forza, ma anche di debolezza: non sempre li si utilizza, temendo che il loro astio nei confronti dei tedeschi porti a pericolosi eccessi. La squadra internazionale è guidata da Giovanni, un tenente dell’aviazione sovietica, di cui si hanno pochissime informazioni: probabilmente originario della zona di Mosca, sarebbe precipitato con il suo aereo a Stalingrado e preso prigioniero dai tedeschi, prima di fuggire e unirsi alla Sinigaglia, in cui viene utilizzato anche come interprete. Commissario politico della squadra è Ivan Egorov, un ex maestro di musica, originario sembrerebbe di Novorossijsk nella Russia meridionale, che rallegra i compagni suonando. La loro età varia dal giovanissimo ex operaio di Kolkoz Vassili all’anziano Jufren. A questi si devono aggiungere esponenti di varie nazionalità, fra cui l’ucraino Nicolaj Bujanov, tanto da rendere decisamente internazionale la composizione della Sinigaglia.
Il giorno dell’attacco a Pian d’Albero gli uomini dei distaccamenti, in gran parte reclute per lo più fuggono colti dal terrore. Non tutti però. I sovietici sono i primi ad accorrere verso il casolare dei Cavicchi, arrivando quando i soldati hanno appena iniziato a ritirarsi, ma vengono intercettati dal fuoco tedesco: Giovanni resta ucciso da una raffica alla testa, Egorov viene gravemente ferito alla gamba e forse anche un terzo di loro cade colpito. Il loro intervento insieme a quello di altri permette però ad alcuni catturati di fuggire. Il Moro, con un gruppo di uomini fra cui Ermanno Capanni, insegue i tedeschi in ritirata e, per tagliare loro la strada, salgono sul colle di fronte a Pian d’Albero cui il sentiero ruota attorno. Giunti sulla cima, iniziano a sparare sui tedeschi ma la loro reazione ferisce il Moro alla spalla e li ferma. Dei circa settanta partigiani presenti a Pian d’Albero, si può ipotizzare che grosso modo una metà sia riuscita a salvarsi; diciotto vengono impiccati, un numero incerto restano uccisi sul posto, con un totale forse di trentatré/trentaquattro vittime. Per una decina di feriti si devono cercare un ricovero e delle cure con l’aiuto della popolazione civile, in particolare Don Bartolucci, parroco di San Cerbone a Poggio alla Croce.
Dopo il 20 giugno la Sinigaglia perde gran parte dei nuovi arrivi, tornando a circa quattrocento effettivi. Apprendendo dagli errori che hanno causato la dura sconfitta, sarà necessario ricostruire e riscattarsi anche per tutti i compagni caduti.
Distrutta durante i combattimenti per lo sfondamento del fronte, del podere di Casa al Monte rimangono solo questi pochi ruderi e un annesso probabilmente con funzione di concimaia.
La famiglia Venturi, composta da cinque fratelli con mogli e figli, si è trasferita da Bruscoli come i Cavicchi nel 1938, occupando questo e il casolare di Monte Moggio. Qui vengono ospitati i primi partigiani nel 1944 che poi si sposteranno sul Monte Castellino. Casa al Monte diventa anche il panificio della Sinigaglia, fino a quando un incendio costringe a spostare la cottura a Monte Moggio. Non solo: i Venturi danno un contributo determinante mettendo a disposizione gli animali e le tregge per il trasporto del materiale ricevuto dai lanci alleati che vengono organizzati sul Pianello di fronte a noi.
L’area di fronte a noi, colloquialmente chiamata il Pianello, si presenta come una conca nascosta e adatta al ricevimento degli aviolanci con cui gli Alleati riforniscono la Resistenza in tutta Italia.
Sappiamo che in questa area vengono compiuti, sembra da parte inglese, probabilmente due lanci di materiale: un primo, molto minore, già nel mese di maggio e un secondo di gran lunga più consistente effettuato la notte del 13 giugno, più altri tentativi non riusciti solitamente per avverse condizioni meteo. La preparazione, è lecito immaginare, non è semplice. Per prima cosa è necessario prendere contatto con l’esercito britannico, operazione che, secondo le testimonianze, avvenne attraverso Vera Vassalle di Radio Rosa a Viareggio, grazie alla quale vengono organizzati aviolanci per le formazioni di larga parte della Toscana. Sembrerebbe che attraverso questa venga predisposto solo il secondo lancio, mentre forse il primo viene portato avanti attraverso Radio Cora, poi smantellata il 7 giugno a Firenze da una retata tedesca.
Stando ad alcuni ricordi, viene coinvolto per prima cosa un ufficiale inglese che effettua un sopralluogo con i comandi partigiani per esaminare l'area del Pianello. Definita la zona, viene concordato che, come di consueto, la data del lancio verrà comunicata con un messaggio in codice diffuso da Radio Londra. Si devono quindi ascoltarne le trasmissioni tutti i giorni. Ad occuparsene è una squadra guidata da Raspa che insieme ai compagni si reca al Poggio alla Croce, a volte dai Bartoli in centro, o più spesso ad una capanna ai margini dell’abitato, vicina ad una cabina della Società Mineraria ed Elettrica Valdarnese, che loro rammentano con il nome di quest’ultima oppure confidenzialmente come “il distretto”. È un’emozione unica quindi quando finalmente viene udita la frase in codice prestabilita: «le pecore sono state tosate». Possono allora correre verso il comando partigiano e dare la notizia del lancio per quella notte avviando una serie di laboriosi preparativi. I tedeschi potrebbero sempre notare degli aerei in volo e devono quindi essere organizzati turni di guardia per sorvegliare le principali vie d’accesso. Per la segnalazione del triangolo entro cui devono essere gettati i paracadute occorre accendere delle fascine di legna al momento opportuno. È poi necessario che tutto intorno vi sia un gran numero di partigiani per seguire lo svolgimento di tutte le operazioni ed i Venturi devono mettere a disposizione le loro tregge con i buoi per il trasporto.
Quella notte l’attesa è molto lunga, finché, passata l’una, un aereo sorvola l’area. Si accendono i fuochi di segnalazione e la vista dei paracadute che scendono è fonte di grande eccitazione. Ci si accorge subito che il materiale è abbondante: probabilmente oltre trenta paracadute, che vengono tutti recuperati, tranne uno, sospinto dal vento, che resta impigliato a gran distanza, negli alberi del bosco. Si vedono sacchi contengono abiti, carte topografiche e alimenti in scatola di vario tipo. Ma soprattutto numerosi bidoni di latta con all’interno, protetti da uno stato di grasso per attutire l’impatto, esplosivi e diverse decine di fucili Sten, smontati e avvolti in carta per alimenti che devono essere rimontati: un procedimento che per molti di loro risulta difficile e necessita di molto tempo per essere portato a termine.
Dopo tutto l’impegno e la fatica dei giorni e delle ore precedenti, adesso la tensione e la concentrazione lasciano spazio a momenti di leggerezza e ilarità fra i ragazzi. Marco, uno dei più refrattari in fatto di igiene personale, viene spogliato a forza dai compagni, che gli passano addosso la carta per alimenti, sporca di grasso degli Sten e un po’ della marmellata di mele cotogne ricevuta. «Tu anderai ora a lavatti!» gli gridano tutti in coro.
Anche se qualcuno nota delle mancanze – ad esempio avrebbero fatto molto comodo delle scarpe– l’impressione generale è di grande soddisfazione: adesso molte reclute possono avere finalmente un’arma. Sarà necessario lavorare più giorni per ricomporre e smistare tutto quel materiale. E questo dà un ulteriore impulso al rafforzamento dei distaccamenti nell’area di Poggio Tondo-Poggio La Sughera, vicini al punto di ricevimento. Il lancio vuol dire molto anche per la vita quotidiana e per il morale dei partigiani. Dai paracadute si possono ricavare tendaggi per scopi vari e soprattutto per riparare alla meglio dalla pioggia le capanne, fino ad allora costruite semplicemente coprendo di erba e terra gli alberi piegati. E non ultimo si può procedere con un gesto simbolico: molti paracadute sono di colore rosso e tagliandoli si possono ricavare fazzoletti rossi per tutti.
Arrivati qui al canale del Borro Grande abbiamo percorso circa un terzo (4,3 Km) del nostro sentiero. Lasceremo la nuova variante del sentiero che ci ha fatto salire all’Apparita di Poggio Tondo-Poggio La Sughera, visitare i resti di Casa al Monte e immaginare il ricevimento dei lanci alleati al Pianello. Ora, dopo la discesa, il nostro tragitto si reimmette nel sentiero CAI principale e prosegue a destra.
Chi volesse invece fermarsi al percorso più breve può girare a sinistra e tornare verso Pian d’Albero e da lì a Poggio alla Croce lungo il percorso dell’andata.
Non si hanno notizie certe sull’anno di costruzione della Cappella dei boschi, nota nella tradizione orale anche come “Cappella dei vescovi”. È comunque verosimile immaginarne l’edificazione in connessione con la vicina Abbazia di San Cassiano (Badia a Montescalari), circondata anche da altri tabernacoli devozionali. Posizionata ad un crocevia di strade, la cappella era sovente luogo di appostamento per le sentinelle partigiane. Fino a tempi recenti erano ancora visibili all’interno gli affreschi raffiguranti una Madonna col bambino circondata da angeli e figure con indosso i paramenti liturgici, completamente scomparsi per l’azione degli agenti atmosferici, in seguito alla caduta del tetto.
La fondazione dell’antica Abbazia di San Cassiano a Montescalari non è databile con certezza ma sappiamo che attorno all’anno mille nell’area avevano sede un “hospitium” ovvero, un punto di ristoro per viandanti tra Chianti e Valdarno ed un oratorio, poi monastero, dedicato a San Cassiano, protettore di scrittori e maestri molto venerato in Toscana. Un documento del 1040 attesta la donazione a quella comunità monastica di vari appezzamenti di terreno dai signori del vicino castello di Cintoia. Poco dopo quel primo insediamento religioso abbraccia la riforma benedettina vallombrosana di Giovanni Gualberto. Nel 1078 un contratto di affitto firmato dall’Abate Eppo afferma ormai la definitiva presenza vallombrosana a Montescalari.
Grazie ai proventi dei poderi e dei mulini tra Valdarno e Valdema e grazie alla giurisdizione (e ai pedaggi) su ponti e strade, i monaci sono in grado di costruire anche ulteriori “spedali”. L’importanza del monastero è attestata dal continuo affluire di lasciti e donazioni, finché nel 1137 venne innalzato formalmente a “Abbazia”, la cui crescente ricchezza è confermata dalle elevatissime decime pagate a cavallo tra il XIII e il XIV.
L’antico ospizio venne consacrato nel 1212 dal vescovo di Fiesole Ranieri, come attesta l’incisione ancora esistente. A croce latina con navata unica in stile romanico-gotico, la chiesa aveva anche un’abside semicircolare, in seguito sostituita con una scarsella quadrilatera. Sull’altare maggiore era collocata l’Assunta del pittore Mariotto detto “il Brina” (1583). Sopra gli altari laterali trovavano posto tele di Andrea Boccacci, discepolo del Cigoli. Del restante patrimonio artistico rimangono ancora la navicella e il turibolo di San Giovanni Gualberto. Datati entrambi tra la fine del XVI secolo e gli inizi del XVII secolo, questi si trovano oggi al Museo San Francesco di Greve in Chianti.
Alla chiesa venne affiancata nel 1339 una grande torre campanaria a base quadrata alta 25 m e dotata di due campane in bronzo, una minore risalente al 1295 ed oggi conservata nella vicina chiesa della Panca, l’altra realizzata da Andrea del Verrocchio nel 1474 e del peso di 2600 libbre. Tale campana, arricchita dai bassorilievi di San Gualberto, di una Madonna con bambino e dello stemma della Badia, si racconta venne realizzata nel chiosco del monastero accendendo un fuoco con diciannove cataste di legna dalle vicine abetine. Il metallo iniziò a fondere alle tredici del 21 ottobre 1474 finendo la notte seguente. Il 24 ottobre la campana venne benedetta dall’Abate don Isidoro e fatta suonare tutto il giorno d’Ognissanti. In seguito alle confische napoleoniche la preziosa campana fu venduta nel 1808 al pievano della chiesa di San Pancrazio in Valdarno, dove, dopo essersi rotta nel 1815, venne rifusa andando perduta.
Collocata in posizione strategica, lungo una viabilità “trasversale” che collegava il Valdarno con la Valdelsa e la via “Francigena” attraverso la Valdigreve e la Valdipesa, la “Badia” a “Monte Scalaio” aumentò i propri possedimenti nel corso dei secoli centrali del medioevo anche grazie a donazioni “pro rimedio anime”, oculati acquisti ed affitti, diventando uno dei tre grandi centri vallombrosani della Toscana centrale, insieme alle abbazie di Vallombrosa e Passignano.
Il complesso abbaziale attuale risale prevalentemente ai grandi ampliamenti realizzati nel XVI e XVII secolo; sul portale della facciata principale è collocato lo stemma in terracotta invetriata con le insegne dell'abbazia, eseguito nel 1505 da Luca Della Robbia “il giovane”. Infine nel 1775 il monastero fu soppresso dal Granduca Pietro Leopoldo e i monaci trasferiti, insieme al ricchissimo archivio storico, al San Virgilio di Siena.
Di proprietà della famiglia Rosselli del Turco dal 1830 fino ad anni recenti, nel luglio 1944 la Badia venne occupata dalle truppe tedesche che usarono come osservatorio la torre campanaria rimasta poi distrutta durante gli scontri bellici. Gli inglesi, che chiamavano l’area “Cleopatra”, durante la loro avanzata non occuparono i locali dell’abbazia ma stabilirono il loro quartier generale nei pressi dell’attuale Cappella dei Boschi. La chiesa venne parzialmente ricostruita nel dopoguerra permettendo l'eliminazione delle varie aggiunte, ma non la ricostruzione del campanile.
Nei dintorni dell’abbazia, fra i vari luoghi votivi dedicati un tempo a San Gualberto, sono sopravvissuti una cappella all’inizio del sentiero CAI 23 presso cui sgorga una fonte chiamata “Fonte Saracina” o “Fonte del Santo” che, secondo la credenza popolare, guarisce i ragazzi dalla pertosse (la tosse canina o cavallina) e un tabernacolo con la misteriosa scritta “Omne Movet Urna Nomen Orat”.
Fra gli alberi più affascinanti della Toscana possiamo annoverare sicuramente IlCerro dai centorami di fronte a voi. Pur non molto noto, è un esemplare assai singolare non tanto per la circonferenza del tronco che comunque sfiora i quattro metri, quanto per la conformazione della chioma che, come indica il nome, ha un’architettura mastodontica: i rami si estendono in quasi tutte le direzioni per diciassette metri di lunghezza con un diametro totale di trentaquattro metri. Anche l’età della pianta è notevole, si calcola che abbia circa un secolo e mezzo di vita.
Da questo punto si può proseguire oltre per circa quattrocento metri fino ad un’area di sosta sulla destra, dove è possibile fermarsi per il pranzo, oppure si può tornare indietro riprendendo il tragitto principale.
Sull’altura di Monte Moggino (730 m slm) si trovano i ruderi di un’antica casa-torre medievale riferibile al XII-XIV secolo. Sono visibili i resti di una grande torre con corte ed altri edifici chiamati comunemente “casagrande”. Agli inizi del ‘300 la vicina abbazia di Monte Scalari acquistò l’edificio ed i terreni limitrofi (anche vitati) che vennero poi abbandonati nei decenni successivi.
Durante il periodo bellico l’altura troppo in vista fu usata solo saltuariamente dalla Brigata Sinigaglia; fortificata dai tedeschi, divenne l’estremità più orientale dell’ultima linea difensiva dei Monti del Chianti dominando le vie di comunicazione che dagli Scalari, attraverso la campagna coltivata, andavano in Valdema. Fu infine dal versante scosceso a nord di questo monte che i tedeschi si ritirarono a fine luglio 1944.
Di fronte a noi sono ancora ben riconoscibili i ruderi del casolare di Monte Moggio dell’altro ramo della famiglia Venturi coloni a Casa al Monte. È qui che viene portata la Topolino tedesca la mattina dell’attacco: i Cavicchi infatti erano stati i primi a percepire il pericolo e ugualmente faranno i Venturi che chiedono l’allontanamento dell’auto. A Monte Moggio si rifugiano alcuni scampati alla tragedia di Pian d’Albero, fra cui la piccola Giuseppina Cavicchi, che solo nei giorni successivi ritroverà la madre, venendo a sapere quanto è successo.
La Sinigaglia si allontana in un primo momento per poi tornare nei giorni successivi alle consuete postazioni del Castellino-Poggio Tondo-Poggio La Sughera. La tragedia di Pian d’Albero impone adesso alla brigata uno sforzo organizzativo che è evidentemente mancato in precedenza. La documentazione conservata all’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età Contemporanea riporta di turni di sorveglianza, piani per il dispiegamento in caso di attacco, e punizioni per chi non esegue gli ordini di cui non c’era traccia in precedenza. Paradossalmente la Sinigaglia esce quindi rafforzata e non indebolita dalla tragedia di Pian d’Albero.
Neanche la riorganizzazione può però permettere di affrontare nel pieno dispiegamento delle sue forze l’esercito tedesco che con l’avanzamento del fronte a partire dal 20 luglio inizia ad occupare le postazioni partigiane. In quegli stessi giorni la Sinigaglia inizia a muovere verso Firenze in previsione dell’ingresso in città e per il 25 luglio ha completato l’insediamento nei boschi di Fonte Santa, sopra Bagno a Ripoli. Lo spostamento non avviene però senza difficoltà e senza vittime. Nonostante alcuni tentativi infruttuosi di fermarli con una mitragliatrice mentre si stanno muovendo con delle autoblinde, i tedeschi raggiungono il casolare di Monte Moggio il 21 luglio. Uccidono il colono con problemi di deambulazione Carlo Bani che incrociano per strada, poi entrano in casa. Lì trovano due partigiani feriti: Alessandro Rossi e Suren Kirikonzian, un partigiano sovietico di origini forse armene, che era rimasto ferito da un colpo esploso accidentalmente da un compagno italiano. I due non vengono solo uccisi, ma anche orrendamente mutilati. Poi, trovata della lana, viene gettata sui cadaveri ed incendiata. Non tutti i partigiani si dirigono verso Firenze. Alcuni sovietici scelgono di non continuare con la Sinigaglia sembra anche per le incomprensioni legate al ferimento di Suren. Le compagnie originarie dell’area mineraria non vogliono lasciare il Valdarno di cui sono innanzitutto espressione e i comandanti della Chiatti e della Castellani non vogliono chiedere ai loro uomini di abbandonare l’area dopo la tremenda strage che ha colpito molte delle loro famiglie, con centonovantuno abitanti innocenti uccisi nel Cavrigliese il 4 e l’11 luglio 1944 nella guerra ai civili dell’esercito tedesco che colpisce le zone della propria ritirata con oltre ottocento episodi di singole uccisioni o stragi maggiori, stando ai dati dell’Atlante delle stragi nazifasciste.
Entrata a far parte nel frattempo della Divisione Arno, comandata dal leggendario comandante Potente, la Sinigaglia è la prima delle brigate ad entrare a Firenze da Porta Romana il 4 agosto. L’esercito tedesco ha iniziato a spostarsi verso il nord della città lasciando però in città i franchi tiratori fascisti pronti a sparare dai palazzi e soprattutto quella stessa notte fra il 3 e il 4 agosto ha distrutto tutti i ponti della città (tranne Ponte Vecchio per scelta di Hitler) per rendere più difficoltoso il loro inseguimento. Sotto un rigido coprifuoco, scarseggiano luce e acqua, e migliaia di sfollati sono costretti a rifugiarsi a Palazzo Pitti. La città è divisa in due e solo grazie al coraggioso gesto dei partigiani Fischer, Niccoli e Ragghianti, che di nascosto stendono un filo telefonico nel corridoio vasariano, è possibile mettere in contatto il CLN fiorentino in centro con l’Oltrarno. Gli Alleati sono ancora lontani e in città sono entrate solo alcune truppe in avanscoperta. La situazione è sorprendente per loro: non si aspettano che l’esercito irregolare partigiano sia pronto a liberare il capoluogo toscano autonomamente, in un primo momento vorrebbero la smobilitazione dei partigiani e la consegna delle loro armi, poi di fronte alla risolutezza di Potente accettano che Firenze venga liberata dagli italiani. Al mattino dell’11 agosto inizia a suonare la Martinella: è il segnale generale dell’insurrezione della città.
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17 Linea difensiva tedesca (MÄDCHEN)
Oltre a essere area di insediamento della Sinigaglia, presente fin da fine aprile/maggio nel Monte Castellino ad ovest, i monti del Chianti fungono da linea di confine la 10° e della 14° armata della Wehrmacht, che hanno come aree operative rispettivamente la zona fino all’Adriatico e fino al Tirreno. Nel luglio 1944 le due armate vengono investite dall’esercito britannico che si dirige verso Firenze lungo quattro direttrici: “Strada Verde” da Panzano verso Mercatale, “Strada del Cuore” da Greve verso il Ferrone, “Strada Blu” da Torsoli a La Panca, “Strada Rossa” da Gaville a Ponte agli Stolli, Brollo e Poggio alla Croce. A protezione del capoluogo toscano i tedeschi hanno predisposto delle linee difensive fortificate per sbarrare la strada agli Alleati. Il 20 luglio 1944, subito prima del fallito attentato, Hitler traccia un’ulteriore linea difensiva prima di Firenze denominata Mädchen (Ragazza). Nella sera dello stesso 20 Kesselring emana gli ordini per predisporre le fortificazioni del nuovo tracciato che dal Brollo curva nei Monti Scalari attraversando Poggio Tondo, La Beccheria, Monte Moggio per poi scendere verso valle attraversando Mugnana, Chiocchio fino a Poggio ai Mandorli. Per realizzare tutti i lavori dagli scavi fino al trasporto delle munizioni vengono requisiti gli uomini della zona a partire dal paese di Poggio alla Croce.
Nei giorni successivi la zona è teatro di un’aspra battaglia protrattasi fino al 30 luglio in cui, stando ai calcoli di Carlo Baldini, sembrerebbe siano stati esplosi addirittura più colpi d’artiglieria che a Montecassino: quasi 60000. Protagonisti principali sono il 1° Battaglione “The Queen’s Own Royal -West Kent Regt. Q.O.-R.W.K” e gli scozzesi del 6 ° Battaglione “Black Watch Regt. ‘The Royal Higland Regt.’” che si contrappongono agli uomini delle divisioni tedesche 356a e 715a.
Il 27 luglio gli uomini del Q.O.-R.W.K. attaccano in direzione di Poggio La Beccheria alle nostre spalle. Sotto una pioggia di proiettili al fosforo che incendiano il bosco, riescono ad arrivare alle pendici della collina, ma si accorgono di non poter avanzare oltre e stremati ricevono l’ordine di accamparsi lì per la notte. Alle 9 del mattino successivo viene disposto di proseguire l’attacco alla cima per poi muovere verso “Corbett”, nome in codice per Poggio Tondo. Un battaglione d’assalto riesce ad avanzare ulteriormente fino a duecento metri dalla vetta, sotto la guida dal sergente Albert Webb, promosso sul campo per il gesto. La battaglia prosegue tutta la giornata, con combattimenti durissimi, fino a quando alle 16 arrivano ai margini della vetta in una posizione esposta, da cui devono scendere per trovare riparo, e, ormai decimati a duecento uomini dagli originari trecento, sono impossibilitati ad andare oltre. Spetta ai Black Watch continuare. Questo infatti sempre il 28 avevano ricevuto l’ordine di conquistare prima “Conn” (Badia a Monte Scalari), poi Monte Moggio e da lì Poggio Beccheria; da qui dovranno ora loro attaccare Corbett (Poggio Tondo). In esecuzione a questo piano d’attacco, alle 19 iniziano a salire da Borro Grande appoggiati da tre carri armati Churchill, carichi di munizioni e acqua per le truppe. Gli scozzesi non si scoraggiano all’attacco tedesco e anche grazie al sopraggiungere del tramonto riescono a resistere, accampandosi poi alle pendici di quello che loro per un errore credono inizialmente Corbett, ma è in realtà Poggio La Sughera. In questa giornata il comportamento più eroico è quello del barelliere Leonard Twells che lavora ininterrottamente trentasei ore per trasportare tutti i feriti all’ospedale da campo a due chilometri di distanza.
La giornata di sabato 29, mentre il Q.O.-R.W.K. deve tenere le postazioni su Beccheria, i Black Watch avanzano nella loro missione. Intanto tre carri armati Churchill vengono inviati lungo il Borro Grande a trasportare nuove munizioni. Due carri si impantanano a bordo strada, ma il tenente Rowe riesce a tornare indietro, recuperare le munizioni e, anche grazie al fuoco di copertura di due carri Sherman a Casa al Monte, avanzare assieme alla fanteria, fino alla conquista di quello che il maggiore Gordon scopre essere “Ring Contour” (Poggio La Sughera). Corbett, l’obiettivo, dista ancora trecento metri. Riusciranno a raggiungerlo nella nottata, ma dovranno difenderlo dai contrattacchi tedeschi che si protrarranno fino al pomeriggio del 30, fra le molte vittime e le storie di tenacia come quella del comandante di compagnia in 2a John Fotheringham che ferito rifiuta di farsi trasportare in ospedale per restare accanto ai suoi uomini.
A Webb, Twells, Rowe, Fotheringham e tutti i loro compagni è stato dedicato il monumento all’interno dell’area di Sant’Andrea per ricordare lo sfondamento del fronte difensivo tedesco.